Trump pro-life

Trump pro-life

Tutto si può dire di Donald Trump, tranne che non sia stato chiaro in campagna elettorale.

Il suo pensiero su vita e aborto, per esempio, lo ha spiegato senza mezzi termini in una lettera aperta intitolata “My vision for a culture of life” pubblicata un anno fa – il 23 gennaio 2016 – dal Washington Examiner, e totalmente ignorata dalla stampa internazionale. Ma quello della censura è un altro tema. L’incipit della lettera aperta non lascia dubbi su come la pensi Trump: «Let me be clear — I am pro-life». Tradotto: «Consentitemi di essere chiaro – io sono un pro-life». Trump ha avuto pure il coraggio di ammettere di aver cambiato idea sulla questione con il passare degli anni. Spiega, infatti, che la decisione di diventare un difensore della vita e un antiabortista l’ha maturata nel corso della sua vita attraverso l’esperienza. In quella lettera aperta Trump ha avuto anche il coraggio di affermare che «over time, our culture of life in this country has started sliding toward a culture of death», ossia che col tempo la cultura della vita degli Stati Uniti d’America ha cominciato a scivolare sempre più verso una cultura della morte. E cita, come esempio, la celeberrima sentenza della Corte Suprema Roe v. Wade che nel 1973 ha portato alla legalizzazione dell’aborto negli U.S.A. Scrive, tra l’altro, Trump: «(…) Dalla sentenza della Corte Suprema nel caso Roe v. Wade , emessa quarantatré anni fa, fino ad oggi, più di cinquanta milioni di statunitensi non hanno avuto la possibilità di usufruire delle opportunità che il nostro Paese è capace di offrire. Non hanno avuto la possibilità di diventare medici, musicisti, agricoltori, insegnanti, mariti, padri, figli e figlie. Non hanno avuto la possibilità di arricchire la cultura di questa nazione o di mettere a disposizione i loro talenti, le loro esistenze, i loro affetti e le loro passioni nel tessuto sociale di questo Paese. Mancano e ci mancano».

«They are missing, and they are missed», si è espresso proprio in questi termini parlando dei bimbi americani cui è stato negato il diritto di nascere. Ma in quella lettera Trump fa pure una considerazione interessante: «Nel 1973 la Corte Suprema, in realtà, fondò la sua decisione su presunti diritti e libertà che non trovano alcun riscontro nella Costituzione. Ma se anche si accettasse il ragionamento assunto dagli stessi giudici supremi, ossia che l’aborto è una questione privata, la logica conclusione sarebbe che tale scelta privata debba essere finanziata con denaro privato e non con il mezzo miliardo di dollari erogato annualmente dal Congresso. Il finanziamento pubblico dell’aborto è quantomeno un insulto alle persone di coscienza e, nella migliore delle ipotesi, un affronto alla buona gestione del bene comune». Per Trump, quindi, quello che non si deve assolutamente fare è «use taxpayer money to facilitate our slide to a culture of death», ossia utilizzare denaro dei contribuenti per agevolare la deriva di una cultura di morte.

Bisogna tener in conto anche questa visione di Trump per comprendere quale siano stati i motivi che hanno indotto il neo Presidente a mettere mano all’Obamacare come suo primo atto di governo, subito dopo l’insediamento alla Casa Bianca. Sì, proprio il «day one» alla Stanza Ovale è stato dedicato da Trump a rivedere la controversa riforma sanitaria voluta dal predecessore Obama. Una riforma che imponendo anche alle strutture e alle istituzioni religiose l’obbligo di copertura assicurativa sanitaria per aborto e contraccezione, aveva creato uno dei momenti di maggior attrito tra la Chiesa cattolica americana e il governo di Washington. Uno scontro giunto persino nelle aule giudiziarie, e che ha fatto partorire alla Conferenza Episcopale U.S.A. una delle più coraggiose ed importanti dichiarazioni sulla libertà religiosa mai emessi da quell’organismo ecclesiale. Si tratta del documento intitolato “Our First, Most Cherished Liberty”, emesso il 14 giugno 2012, con cui i vescovi americani hanno invitato i fedeli alla disobbedienza civile. Dopo aver giustamente precisato che «religious liberty is not only about our ability to go to Mass on Sunday or pray the Rosary at home», ossia che la libertà religiosa non si limita soltanto alla possibilità di andare a Messa la domenica o di recitare il Rosario a casa propria», i coraggiosi presuli statunitensi hanno lanciato questo appello: «E’ triste dover constatare come il nostro governo abbia emanato una legge ingiusta (la riforma della sanità di Obama, n.d.t.).

Ad una legge ingiusta non si può obbedire. Di fronte ad una legge ingiusta, non può essere trovato nessun compromesso, soprattutto ricorrendo a parole equivoche e ad atteggiamenti ingannevoli. Tutti i cattolici americani, insieme ai loro concittadini, devono oggi trovare il coraggio della disobbedienza civile difronte a qualunque legge possa apparire ingiusta». In quel documento i vescovi americani citarono anche le parole scritte dal Martin Luther King nella sua celebre “Lettera dalla prigione di Birmingham” del 1963: «Io sono d’accordo con Sant’Agostino che “una legge ingiusta non è una legge”, e che una legge, per dirla come San Tommaso d’Aquino, deve considerarsi ingiusta quando contrasta con la legge morale, con il diritto naturale e con la legge eterna di Dio».

Obama snobbò l’appello dei vescovi americani, e negò alle strutture religiose la possibilità di esercitare il diritto all’obiezione di coscienza nei confronti della sua riforma sanitaria, sull’assunto che aborto e contraccezione devono considerarsi «diritti fondamentali delle donne».

Poi è venuto Trump.

E sembra che ora le cose comincino a cambiare.

 

 

Gianfranco Amato