La fine dell’Euro

La fine dell’Euro

Nel 2016 il Nobel per l’Economia è stato assegnato a Oliver Hart, britannico di nascita ed americano di adozione. Il Professor Hart, scienziato serio e noto per non avere peli sulla lingua, ha emesso, dall’alto della sua indubbia autorevolezza scientifica ora amplificata dal premio, una lapidaria sentenza sulla moneta unica europea. Senza battere ciglio, il professore se ne è uscito con questa affermazione sintetica ma efficace: «The euro was a mistake».

Sì, avete capito bene, ha detto proprio così: «L’euro è stato un errore».

In un’intervista rilasciata all’Agenzia di stampa spagnola EFE, il neo Premio Nobel ha spiegato, infatti, che i Paesi membri dell’Unione europea non sono «suficientemente homogéneos» per essere considerati «una sola unidad», e per questo è stato davvero un errore tentare un’unificazione impossibile. Ha aggiunto in quell’intervista che «no estaría en absoluto triste si lo que pasara en un futuro es que Europa se alejase del euro: los británicos fueron muy listos al quedarse fuera de la moneda única», ossia che non sarebbe poi triste se in futuro l’Europa evitasse di usare l’euro, e che gli inglesi sono stati molto intelligenti a restare fuori.

E così anche il Professor Oliver Hart si aggiunge agli altri sei Premi Nobel critici rispetto all’euro: Paul Krugman, Joseph Stiglitz, Amartya Sen, Milton Friedman, James Mirrless, Christopher Pissarides. Un settetto anti euro di tutto riguardo. Sette Premi Nobel fortemente critici rispetto a quello che si è rivelato un esperimento valutario mal riuscito sulla pelle di cinquecentootto milioni di persone. E non stiamo parlando di demagoghi populisti alla Salvini o alla Grillo.

Da quasi dieci anni io sostengo che l’euro rappresenta una scommessa persa. Quando i fautori degli Stati Uniti d’Europa si resero conto che quel sogno faticava a diventare realtà, ebbero la geniale pensata di accelerare il processo con un azzardo. Puntarono a realizzare la moneta unica perché questa avrebbe inevitabilmente portato all’unità politica. Il problema è che la moneta oggi ce l’abbiamo ma gli Stati Uniti d’Europa si sono rivelati un progetto assolutamente irrealizzabile. Ne hanno preso atto anche i più irriducibili sostenitori di quell’utopia. Il fatto è che i sognatori hanno rischiato l’osso del collo e hanno perso. Senza unità politica, infatti, dovrà necessariamente cessare anche l’unità monetaria. Ricordo che il primo esame che sostenni, ormai – ahimé – trentasei anni fa, al corso di giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano, fu proprio quello di economia politica, tenuto dall’economista svizzero Marco Baranzini. E ricordo che una delle prime cose che appresi in quel corso fu che una moneta per esistere deve avere una politica monetaria, un ministero del Tesoro e una banca centrale. Senza questi tre fattori, mi insegnava il Prof. Baranzini, una moneta semplicemente non può esistere, o se esiste vale quanto la moneta del gioco del Monopoli.

Tradotto significa che l’euro senza Stati Uniti d’Europa non può sopravvivere come moneta. E’ destinato ad implodere, ed è solo questione di tempo.

Mi fa piacere il fatto che, dopo quasi un decennio, stiano venendo sulle mie posizioni anche insospettabili euroentusiasti come Emma Bonino. Mi ha colpito, infatti, un passaggio dell’intervista rilasciata dalla leader radicale – la più europeista degli europeisti – a Pietro Senaldi de “Il Giornale”, il 13 settembre 2016. Rispondendo a quel giornalista, infatti, la Bonino affermò: «Fu un errore fare l’euro come unica cosa: non è mai esistita nel mondo una moneta unica senza una politica comune, un tesoro e una banca di ultima istanza. Si disse, facciamo l’euro, la politica seguirà, invece si è addormentata». Con dieci anni di ritardo arriva anche Emma Bonino a riconoscere che l’euro altro non è se non una scommessa persa.

Magra consolazione.

Ancora più clamoroso, però, appare il riconoscimento del fallimento da parte di colui che viene ancora considerato in Italia come il “Padre” dell’euro: Romano Prodi. Sì, proprio quello che aveva profetizzato: «Con l’euro lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se lavorassimo un giorno di più». Due previsioni entrambe puntualmente mancate. C’è, in proposito, un interessante articolo di Raffaele Binelli pubblicato su “Il Giornale” il 25 marzo 2014 dal titolo inequivocabile: «Senti chi parla: Prodi critica l’euro e l’Europa dei banchieri».

A questo punto, però, non è sufficiente la critica di chi si limita al «noi l’avevamo detto». Quale può essere la via d’uscita da una situazione che oggi ha, comunque, un unico orizzonte riconosciuto da tutti: l’inevitabile crollo dell’euro? Ci sono solo due possibilità realistiche. Una exit strategy pilotata o l’attesa dell’improvviso tzunami. Nel primo caso è vero che i costi sociali dell’operazione sarebbero devastanti, però si tratterebbe di un processo pianificato e guidato secondo una strategia razionale. Lo scenario sarebbe quello di una ricostruzione dopo una guerra persa. La seconda ipotesi, invece, risponderebbe alla logica dello struzzo, ossia quella di nascondere la testa sotto la sabbia in attesa dell’invitabile cataclisma. In pratica di tratterebbe di continuare a posticipare il problema senza assumere alcuna iniziativa, in modo da essere colti di sorpresa nel momento dell’implosione dell’euro, e gestire tutto in emergenza senza piani prestabiliti. L’ulteriore ipotesi della costituzione degli Stati Uniti d’Europa non la prendo neppure in considerazione perché trattasi di ipotesi di terzo grado, ovvero appartenente al mondo dell’irrealtà. Tutti ne hanno ormai preso atto.

Resta, quindi, solo un’alternativa su come affrontare il tema tra la lucidità razionale o l’incoscienza irresponsabile. Da anni io sostengo la prima via, ossia quella di pianificare una via d’uscita dall’euro, prendendo atto che – come continuano a sostenere i prestigiosi Premi Nobel – si è trattato di un errore, di un esperimento mal riuscito, di un’operazione fallita.

Poiché, però, non amo avere preconcetti ideologici, resto comunque aperto alla possibilità di cambiare idea, se qualcuno mi convince che può esistere una moneta senza una politica monetaria, senza un ministero del Tesoro e senza una banca centrale. In questo caso, però, quel qualcuno dovrebbe anche candidarsi al Nobel per l’Economia, perché la scoperta sarebbe davvero rivoluzionaria. Degna del prestigioso premio.

 

Gianfranco Amato