Riprendiamoci la Domenica!
Domenica è un giorno di riposo.
Si tratta di una tradizione antichissima.
Fu l’imperatore Costantino, il 7 marzo 321, a decretare che il venerabile giorno del Sole dovesse essere dedicato al riposo, con queste parole: «Omnes iudices urbanaeque plebes et artium officia cunctarum venerabili die solis quiescant». Tradotto: «Si riposino i magistrati e gli abitanti delle città, nel venerabile giorno del Sole e si lascino chiusi tutti i negozi». La tradizione continuò, ovviamente, quando il 3 novembre 383, sotto Teodosio I, il “dies Solis”, il giorno del Sole, divenne “dies dominica”, ossia il giorno del Signore, la nostra domenica.
La tradizione proseguì pressoché ininterrottamente per millecinquecento anni, cioè fino alla rivoluzione industriale della borghesia ottocentesca.
L’abolizione del riposo domenicale non avvenne con provvedimenti normativi ma col semplice ricatto del licenziamento. I “padroni delle ferriere” non lasciavano molte alternative ai salariati che non accettavano di lavorare sette giorni su sette. Pochi sanno, però, che la lotta per il riposo domenicale non appartiene alla tradizione marxista della lotta di classe.
E’ un po’ più vecchia della Prima Internazionale socialista (1864). In Italia fu, infatti, l’Opera per il riposo festivo, la prima organizzazione fondata a Torino nel 1850, di cui fu vicepresidente, peraltro, tale San Giovanni Bosco. L’iniziativa fu promossa dal Beato Francesco Faà di Bruno, che rivestì all’interno dell’Opera il ruolo di segretario esecutivo, e fu subito affiancata da numerose altre organizzazioni sorelle di matrice cattolica, tutte rivolte a questa nobile – e purtroppo dimenticata – battaglia in favore non solo dei cristiani, ma di tutti coloro che venivano considerati i «nuovi schiavi».
Il Beato Faà di Bruno non esitava a definire «barbari» tutti i datori di lavoro privati e anche pubblici che costringevano i dipendenti a lavorare dodici ore al giorno tutti i giorni dell’anno. Vittorio Messori ricordò che questa fu una battaglia non solo “religiosa”, per permettere la frequenza alle funzioni della domenica, ma anche sociale. E fu tra le più preziose e solitarie lotte, visto che — per pregiudizio ideologico — il sindacalismo “laico”, socialista, per la domenica non si scaldò più di tanto, come dimostrano gli attuali progressisti, i pronipoti cioè dei socialisti ottocenteschi, che hanno ripristinato la domenica come giorno lavorativo. Solo nel 1907 il governo di Giovanni Giolitti si decise a una legge sul riposo settimanale obbligatorio, anche se non per tutte le categorie. Ricorda ancora Messori che nel 1880, l’Opera torinese chiese pubblicamente a settecentocinquanta responsabili di imprese di detrarre il salario, ma di conservare il posto ai dipendenti che avessero riposato: solo diciotto padroni aderirono. Migliaia di cattolici, allora, si radunarono per giurare che avrebbero boicottato prodotti e servizi di chi opprimeva in quel modo i lavoratori, riducendo a «nuovi schiavi» anche moltissime donne e bambini. Colpendo così nella borsa degli ingordi capitalisti, si ebbero i primi effetti.
Alla luce di questo resoconto storico appare davvero ancora più deprimente vedere quanti esercizi pubblici, soprattutto nella grande distribuzione, costringono i dipendenti a lavorare anche la domenica.
Il Popolo della Famiglia non ha timore nel proclamarsi decisamente contrario a questa «barbara» abitudine, che contrasterà politicamente a qualunque livello.
Non v’è, peraltro, da stupirsi di questa posizione se si considera la cornice valoriale entro la quale si muove questo nuovo partito, ovvero il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa.
E cosa dice questo documento in proposito lo si può leggere ai punti 284, 285 e 286. Vediamoli uno per uno.
Punto 284: «Il riposo festivo è un diritto. Dio cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro (Gen 2,2): anche gli uomini, creati a Sua immagine, devono godere di sufficiente riposo e tempo libero che permetta loro di curare la vita familiare, culturale, sociale e religiosa. A ciò contribuisce l’istituzione del giorno del Signore. I credenti, durante la domenica e negli altri giorni festivi di precetto, devono astenersi da lavori o attività che impediscano il culto dovuto a Dio, la letizia propria del giorno del Signore, la pratica delle opere di misericordia e la necessaria distensione della mente e del corpo. Necessità familiari o esigenze di utilità sociale possono legittimamente esentare dal riposo domenicale, ma non devono creare abitudini pregiudizievoli per la religione, la vita di famiglia e la salute.
Punto 285: «La domenica è un giorno da santificare con un’operosa carità, riservando attenzioni alla famiglia e ai parenti, come anche ai malati, agli infermi, agli anziani; né si devono dimenticare quei fratelli che hanno i medesimi bisogni e i medesimi diritti e non possono riposarsi a causa della povertà e della miseria »; inoltre è un tempo propizio per la riflessione, il silenzio, lo studio, che favoriscano la crescita della vita interiore e cristiana. I credenti dovranno distinguersi, anche in questo giorno, per la loro moderazione, evitando tutti gli eccessi e le violenze che spesso caratterizzano i divertimenti di massa. Il giorno del Signore deve sempre essere vissuto come il giorno della liberazione, che fa partecipare all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli» (Eb 12,22-23) e anticipa la celebrazione della Pasqua definitiva nella gloria del cielo».
Punto 286: «Le autorità pubbliche hanno il dovere di vigilare affinché ai cittadini non sia sottratto, per motivi di produttività economica, un tempo destinato al riposo e al culto divino. I datori di lavoro hanno un obbligo analogo nei confronti dei loro dipendenti. I cristiani si devono adoperare, nel rispetto della libertà religiosa e del bene comune di tutti, affinché le leggi riconoscano le domeniche e le altre solennità liturgiche come giorni festivi: Spetta a loro offrire a tutti un esempio pubblico di preghiera, di rispetto e di gioia e difendere le loro tradizioni come un prezioso contributo alla vita spirituale della società umana. Ogni cristiano dovrà evitare di imporre, senza necessità, ad altri ciò che impedirebbe loro di osservare il giorno del Signore».
Nel mio peregrinare per l’Italia ho avuto modo di incontrare molte persone, ciascuna con la propria storia, la propria personale sofferenza, i propri bisogni, le proprie difficoltà esistenziali e lavorative. Tra i tanti, una vicenda mi ha, però, particolarmente colpito. E’ il caso di un uomo di cinquant’anni che dopo essere stato licenziato dall’azienda dove ha sempre lavorato (l’azienda ha chiuso per fallimento) si è ritrovato a dover accettare un lavoro precario presso un grande supermercato. Ho visto quest’uomo piangere quando, singhiozzando, mi ha confessato di essere costretto a lavorare anche la domenica, e piangeva perché proprio la domenica era l’unico giorno in cui tutta la sua famiglia si poteva ritrovare insieme a pranzo. Anche la moglie, infatti, era costretta a stare fuori di casa per lavoro durante la settimana. Delle due figlie, una era lontana per motivi di studio, e rientrava durante il week-end, l’altra lavorava in un call-center con relativa pausa pranzo da consumare fuori di casa. L’uomo, tra le lacrime, mi confessò una cosa atroce: «Sono arrivato a cinquant’anni e sono costretto a lavorare anche la domenica senza avere alcuna possibilità di scelta, e per questo mi sento uno schiavo!».
Sì, proprio come i «nuovi schiavi» contro cui si batteva l’Opera torinese nel 1850. Ah, per i poveri «schiavi» di oggi ci vorrebbero di nuovo santi come don Bosco e beati come Faà di Bruno.
Oggi che sono tornati i «barbari»!
Gianfranco Amato