37,7 milioni di euro per la campagna d’Etiopia

Gli italiani continuano a finanziare la guerra in Abissinia e non lo sanno.

Sì, mi riferisco proprio alla campagna d’Etiopia voluta dal Duce e conclusasi con la proclamazione dell’Impero. Fu una vera e propria “Blizkrieg”, una guerra lampo, perché durò solo sette mesi dal 3 ottobre 1935 al 5 maggio 1936. Gli effetti fiscali di quella guerra, invece, non sono mai finiti, perché continuano ai giorni nostri.

Facciamo una breve premessa per contestualizzare l’affermazione appena fatta.

Bruxelles ha concesso pochi giorni di tempo all’Italia per iniziare ad assumere provvedimenti finalizzati ad attuare la manovra da 3,4 miliardi di euro che ha imposto da qualche settimana. Dietro le minacce aleggia lo spettro della procedura d’infrazione.

In un lasso di tempo così risicato il governo italiano ha solo una possibilità materiale di rispondere agli ordini della Commissione europea: aumentare le accise sui carburanti e sui tabacchi. In pratica, colpire indiscriminatamente i soliti noti. Si tratta di una leva fiscale tra le più inique, ingiuste e immorali. Quando lo Stato non sa come fare cassa, colpisce i suoi cittadini in quello che ormai è diventato, di fatto, un bene essenziale com’è il carburante per l’automobile. Violando, peraltro, il principio costituzionale della capacità contributiva. Recita, infatti, l’art. 53 della nostra Costituzione che «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». L’accisa sui carburanti, invece, colpisce tutti alla stessa identica maniera: la signora Maria Franca Fissolo Ferrero, ossia la persona più ricca d’Italia, il signor Mario Esposito che percepisce la pensione minima di 501,89 euro per 13 mensilità, il signor Vincenzo Sanna disoccupato cinquantenne che usa l’automobile per la disperata ricerca di un lavoro anche precario. Questo iniquo balzello fisso ingiustamente imposto a ricchi e poveri, peraltro, determinerà conseguenze negative sui consumi, a causa dell’inevitabile rincaro dei prezzi dei principali beni di consumo, penalizzando ancora una volta le famiglie più in difficoltà. Non dimentichiamo, poi, che oltre agli autotrasportatori ci sono intere categorie come gli autonoleggiatori, i taxisti, i padroncini, gli agenti di commercio che, utilizzando professionalmente ogni giorno l’autovettura o il furgone, rischiano di appesantire ulteriormente una situazione economica già ampiamente in crisi.

Cosa c’entra tutto questo con la guerra di Abissinia? Lo spieghiamo subito. La campagna di Etiopia ha a che fare proprio con l’accisa sul carburante. Oggi il carico fiscale su benzina e gasolio si aggira attorno al settanta per cento. Su ogni litro di carburante pesano le famigerate accise. Si tratta di una ventina di voci tra cui troviamo anche quella relativa alla guerra di Abissinia. Sulla somma totale, infatti, che lo stato incassa per ogni litro di carburante, l’importo di 0,000981 euro è destinato al finanziamento della campagna d’Etiopia del 1935-1936. Considerando che nel 2016 sono stati venduti trentotto miliardi e cinquecento milioni di litri di carburante, gli italiani l’anno scorso hanno versato 37.768.500 euro per sostenere l’avventura coloniale del Duce. Ma non è l’unica anacronistica bizzarria dell’accise in questione. Sempre tra le voci che compongono il prelievo fiscale al litro, troviamo pure 0,00723 euro per il finanziamento della crisi di Suez del 1956; 0,00516 euro per la ricostruzione post disastro del Vajont del 1963; 0,00516 euro per la ricostruzione post alluvione di Firenze del 1966; 0,00516 euro per la ricostruzione post terremoto del Belice del 1968; 0,0511 euro per la ricostruzione post terremoto del Friuli del 1976; 0,0387 euro per la ricostruzione post terremoto dell’Irpinia del 1980; 0,106 euro per il finanziamento della guerra in Libano del 1983; 0,0114 euro per il finanziamento della missione militare in Bosnia del 1996; 0,02 euro per il rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004; 0,005 euro per l’acquisto di autobus ecologici nel 2005; 0,0051 euro per il terremoto dell’Aquila del 2009; da 0,0071 a 0,0055 euro per finanziamento alla cultura nel 2011; 0,04 euro per l’arrivo di immigrati dopo la crisi libica del 2011; 0,0089 euro per l’alluvione in Liguria e Toscana nel novembre 2011; 0,082 euro (0,113 sul diesel) per il famigerato decreto “Salva Italia” adottato da Mario Monti nel dicembre 2011; 0,02 euro: terremoti dell’Emilia del 2012.

Due curiosità. Sempre nel 2016 lo Stato ha incassato con il prelievo complessivo imputato ai terremoti di Belice, Friuli e Irpinia – ovvero ovvero 0,12006 euro al litro –, un totale di 4.622.310.000 euro. Una cifra che corrisponde ad una manovra finanziaria di uno stato e che consentirebbe ogni anno di ricostruire un bel pezzo d’Italia. La seconda curiosità riguarda il famigerato decreto montiano che avrebbe dovuto “salvare” il nostro Paese. L’ammontare prelevato da questa odiosa gabella annuale lasciataci in eredità dal governo del Bocconiano è di ben tre miliardi e centocinquantasette milioni di euro.

Ma è proprio il prelievo fiscale per finanziare la guerra d’Abissinia che riesce a rappresentare degnamente lo specchio di questa Italia. Tra l’altro, è pure un oggettivo indicatore di quanto il nostro sistema tributario appaia farraginoso, obsoleto, anacronistico, paradossale fino a sconfinare nel risibile. Un sistema che ormai non appare più riformabile. L’unica prospettiva concreta possibile è quella di un totale azzeramento e dell’adozione di modelli più funzionali ma soprattutto più equi. Quello britannico, per esempio, rappresenta un modello da studiare e prendere in considerazione.

Da anni si parla in Italia di una vera e propria “persecuzione fiscale”, tale da far percepire il nostro Paese come un vero “fiscal hell”, un inferno fiscale. Alla fine del 2015 l’edizione italiana dell’International Business Time titolava un interessante articolo in questo modo: “Tasse sulle imprese: Italia inferno d’Europa. Pressione fiscale del 64,8% contro una media europea del 40,6%”, e citava lo studioPaying taxes 2016” redatto dal World Bank Group.

Non proprio un buon biglietto da visita per gli eventuali investitori stranieri.

Del resto la stessa Corte dei Conti ha definito il sistema fiscale italiano eccessivo e mal distribuito, invocando una «riforma vera per una riduzione dell’onere tributario» e «l’attuazione di un disegno equo e strutturale di riduzione e redistribuzione dell’onere tributario».

Cosa pensa il Popolo della Famiglia a questo riguardo?

Com’è noto, la visione politica del PDF si radica nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, pubblicato nel 2004 dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. L’anno successivo, 2005, lo stesso Consiglio dava alle stampe un altro importante documento in materia, intitolato “Dizionario di dottrina sociale della Chiesa”, nel quale si stabiliva espressamente il principio secondo cui la politica fiscale deve tenere nel debito conto il diritto dello Stato a riscuotere le tasse secondo una legge giusta, e che «tale diritto non è illimitato», in quanto la stessa legge fiscale deve anche rispettare l’equità, facendo in modo che il carico fiscale sia distribuito secondo le reali possibilità delle persone e dei gruppi e astenendosi dall’«imporre una pressione fiscale dannosa per le iniziative private o che stimoli l’evasione fiscale».

In Italia, oggi, il sistema fiscale non appare solo disfunzionale e disorganico ma arriva, a volte, a mostrare una brutale natura “confiscatoria”, “espropriativa”, quando il cittadino, a causa l’eccessiva onerosità del prelievo fiscale, non è in grado di ottemperare all’obbligazione tributaria attraverso il reddito percepito ed è addirittura costretto a ricorrere ai risparmi, intaccando così il suo patrimonio personale. Sistemi di tal fatta sono semplicemente ingiusti, iniqui, immorali e, quindi, non vincolanti per la coscienza.

Benedetto XVI nel suo viaggio in Africa dal 17 al 23 marzo 2009 – quello che gli costò una formale reprimenda da parte del parlamento belga  – presentò l’Instrumentum laboris per la Seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, un importante documento che al punto 25, tra l’altro, elenca tra le cause dei «malfunzionamento delle istituzioni statali» anche le «tasse eccessivamente alte e, a volte, illecite».

Idee molto chiare sul punto le aveva anche uno dei Pontefici che io notoriamente prediligo: Pio XII. Fu proprio Papa Pacelli nel suo discorso tenuto il 2 ottobre 1948 ai partecipanti al Congresso dell’Istituto Internazionale di Finanze Pubbliche, a denunciare il «formidabile aumento dei bisogni finanziari di ogni nazione, grande o piccola», a causa della «estensione smisurata dell’attività dello stato, dettata troppo spesso da ideologie false o malsane, che fa della politica finanziaria, particolarmente della politica fiscale, uno strumento al servizio delle preoccupazioni di un ordine affatto diverso» da quello del bene comune. Ecco perché, in quel lontano 1948, il Papa «rivolgendosi a coloro che hanno qualche parte di responsabilità nella cura delle questioni di finanza pubblica», li scongiurava «nel nome della coscienza umana», affinché si «astenessero da quelle misure, che, malgrado la loro abilità tecnica, urtano e offendono nel popolo il senso del giusto e dell’ingiusto, sottovalutano la sua forza vitale, la sua legittima ambizione di raccogliere il frutto del proprio lavoro, la sollecitudine per la sicurezza familiare: tutte considerazioni che meritano di occupare nella mente del legislatore il primo posto e non l’ultimo». Parole profetiche rimaste, purtroppo, del tutto inascoltate nel nostro Paese. Sempre il quel discorso Pio XII ribadiva che «il sistema finanziario dello stato deve mirare a riorganizzare la situazione economica, così da assicurare al popolo le condizioni materiali della vita, indispensabili per conseguire il fine supremo assegnato dal Creatore: lo sviluppo della sua vita intellettuale, spirituale e religiosa». Altra profezia totalmente disattesa dalla politica italiana. Otto anni dopo aver pronunciato quelle parole, Papa Pacelli, incontrando questa volta i partecipanti del X Congresso della Associazione Fiscale Internazionale, il 2 ottobre 1956 spiegò, parlando in francese, che i carichi fiscali devono essere «nécessaires et proportionnées» alle risorse dei contribuenti e che «l’impôt ne peut donc jamais devenir pour les pouvoirs publics un moyen commode de combler le déficit provoqué par une administration imprévoyante», ossia che «l’imposta non può mai essere trasformata da parte dei pubblici poteri in un comodo strumento per estinguere il disavanzo causato da un’amministrazione imprudente». Aggiunse che lo stato deve far sì che l’imposizione fiscale non venga mai percepita dai cittadini «comme une charge toujours excessive et plus ou moins arbitraire», ovvero come un carico sempre eccessivo e più o meno arbitrario, e concluse con questa affermazione: «La saggezza dei governanti e l’azione efficace di amministratori pubblici fedeli ed integri deve rendere evidente nei contribuenti l’idea che il sacrificio fiscale imposto corrisponda ad un servizio reale e capace di dare frutti».

Questa è la visione che il Popolo della Famiglia ha di un sistema fiscale equo e funzionale.

Quello che il nostro Paese, purtroppo, oggi può solo sognare.

Gianfranco Amato