Non c’è morale senza Verità!

Non c’è morale senza Verità!

E’ finita così, con il riso amaro della commedia all’italiana, l’avventura grillina al Comune di Roma.

Corruzione, tresche amorose, complotti, pianti, cemento e Procura della Repubblica. Tutti gli ingredienti di un film di Dino Risi o Luigi Comencini. Anzi, se sostituite i personaggi reali con interpreti del calibro di Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Gina Lollobrigida e Claudia Cardinale, vi trovate già sfornata la scenografia di un lungometraggio di Mario Monicelli. C’è pure il titolo: “Patata bollente”.

E pensare che i grillini erano i “duri e puri” della moralità politica. Quelli per cui alla prima avvisaglia di procedimento penale – foss’anche un’indiscrezione giornalistica – ci si doveva immediatamente dimettere. Oppure quelli che, secondo il suggerimento del povero Casaleggio, avrebbero voluto i politici corrotti esposti alla pubblica gogna dentro gabbie lungo le tangenziali. Qui, invece, i fascicoli dei procedimenti continuano a sommarsi, al punto che per Virgina Raggi si è dovuto persino modificare il regolamento e assumere un atteggiamento “garantista”. Parola che fino a poco tempo fa avrebbe fatto venire l’orticaria al grillino medio. Ma il MoVimento oggi deve salvare la poltrona del Campidoglio e convertirsi. Del resto, parafrasando il francese Enrico IV di Borbone, Roma val ben una Messa!

Un epilogo davvero da riso amaro, in cui l’unica cosa seria che resta è l’evidente incapacità di governo da parte del movimento Cinque Stelle. Gli assessori cadono uno ad uno come i petali di una rosa appassita, sputtanando con assoluta nonchalance i compagni di viaggio a cui si dice addio. L’afasia decisionale appare impressionante: uno stallo mai visto prima. Le promesse, come nella migliore tradizione della politique politicienne, non vengono minimamente mantenute. Si discute di assumere decisioni (perché di fatto restiamo nel campo delle intenzioni) contrarie a quello che si sosteneva in opposizione, come ad esempio la questione dello Stadio della Roma, definita da Vittorio Sgarbi come «la più grande speculazione edilizia mai vista nella Capitale». Esagerato? Non tanto, direi, se si considera quello che in proposito scrisse Virginia Raggi – quando era aggressiva consigliera d’opposizione – il 3 dicembre 2014 in un feroce esposto al Procuratore della Repubblica contro i palazzinari dello stadio: «Il procedimento di approvazione dell’impianto sportivo è un’enorme speculazione immobiliare avente lo scopo fraudolento di assicurare enormi vantaggi economici a società private a scapito degli enti pubblici coinvolti e a discapito dei cittadini; appaiono non sussistere i requisiti di pubblica utilità previsti dalla legge di riferimento».

Ma si sa, da che mondo è mondo, che quando si passa dall’opposizione al governo le prospettive cambiano. Possiamo solo dire che oggi la Capitale appare più che mai lo specchio del Paese: l’Urbe del basso impero.

Fermiamoci qui perché continuare l’analisi di quello che sta accadendo nella giunta capitolina equivarrebbe a sparare contro la Croce Rossa. Troppo facile e persino crudele.

La vicenda romana, però, ci può indurre ad una riflessione sulla cosiddetta “questione morale”.

Cosa pensa il Popolo della Famiglia sul comportamento etico che un politico deve assumere nell’espletamento del suo delicato incarico?

La stella polare resta, come sempre, la Dottrina Sociale della Chiesa. Il paragrafo n.411 del Compendio sul punto è assai chiaro: «Tra le deformazioni del sistema democratico, la corruzione politica è una delle più gravi, perché tradisce al tempo stesso i principi della morale e le norme della giustizia sociale; compromette il corretto funzionamento dello Stato, influendo negativamente sul rapporto tra governanti e governati; introduce una crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni pubbliche, causando una progressiva disaffezione dei cittadini nei confronti della politica e dei suoi rappresentanti, con il conseguente indebolimento delle istituzioni. La corruzione distorce alla radice il ruolo delle istituzioni rappresentative, perché le usa come terreno di scambio politico tra richieste clientelari e prestazioni dei governanti. In tal modo, le scelte politiche favoriscono gli obiettivi ristretti di quanti possiedono i mezzi per influenzarle e impediscono la realizzazione del bene comune di tutti i cittadini».

Quando l’unico orizzonte valoriale del politico si riduce al denaro, allora cominciano i guai. «Radix enim omnium malorum est cupiditas», scriveva San Paolo nella prima lettera a Timoteo (1 Tm 6, 10), l’attaccamento ai soldi è la radice di tutti i mali, e quando la «cupiditas» afferra chi rivestendo ruoli pubblici ha la delicata responsabilità di amministrare il bene comune, allora i mali vengono amplificati creando un danno generalizzato e diffuso.

Lo stile di vita del politico impegnato nel Popolo della Famiglia deve essere ispirato alla sobrietà, alla temperanza, all’autodisciplina, all’onore, al decoro, alla lealtà, alla giustizia, all’imparzialità, alla correttezza, alla buonafede, alla franchezza, alla diligenza, alla serietà nell’impegno, all’onestà e all’integrità morale sul piano personale e pubblico.

A questo punto, però, ritengo sia opportuno distinguere tra moralismo e morale. Come insegnava mons. Giussani, il primo si traduce in fariseismo. Il fariseo è uno che vive senza tensione, perché stabilisce lui stesso la misura del giusto e la identifica con ciò che crede di poter fare, e come contraccolpo, usa la violenza contro chi non è come lui. Esattamente come il moralismo grillino, il quale, peraltro, poggiando sul falso presupposto dell’inesistenza di una morale naturale oggettiva, di Dio, della Verità, cade poi inesorabilmente nel peccato originale. Quella cicatrice ineliminabile nel cuore dell’uomo, «quel punto di sutura eternamente mal cucito» come veniva definito dal grande Charles Péguy. Senza una tensione alla Verità il moralismo non potrà mai trasformarsi in autentica morale.

Esattamente domani ricorre il venticinquesimo di quella esperienza politico-giudiziaria chiamata “Mani Pulite”. Il 17 febbraio 1992, infatti, l’arresto di Mario Chiesa dava inizio a quella che sarebbe passata alla storia come la stagione di “Tangentopoli”. Ebbene, dopo venticinque anni non è cambiato proprio nulla rispetto alla cosiddetta «criminalità in giacca e cravatta». Anzi. La colpa di questo inevitabile fallimento non sta, come dice Mattia Feltri su “La Stampa”, in una «politica fuorilegge» o in una «legislazione da trincea difensiva». La colpa risiede sempre inesorabilmente nella Colpa con la maiuscola: il peccato originale. Una moralità che si rifiuti di partire da questa premessa ineludibile, che pretenda di attuarsi attraverso il mero sforzo individuale, che neghi l’oggettività di Verità assoluta, che respinga l’idea di una dimensione trascendentale dell’esistenza umana, che si riduca al semplice rispetto di regole prestabilite dallo Stato, è una moralità destinata irrefragabilmente a fallire.

Perciò appare insufficiente e riduttivo pensare che l’impegno del Popolo della Famiglia possa limitarsi ad una semplice trasformazione delle strutture istituzionali, politiche, economiche e sociali, perché se alla base non vi è una cultura in grado di accogliere, giustificare e progettare le istanze che derivano dalla Verità, qualunque trasformazione poggerà sempre su fragili fondamenta.

 

Il modello da seguire per tutti gli aderenti e militanti del Popolo della Famiglia resta S. Tommaso Moro, Patrono dei governanti e dei politici, un uomo che seppe testimoniare fino al martirio la dignità inalienabile della coscienza e il rifiuto di ogni ingiusto compromesso, arrivando ad affermare con la sua vita e con la sua morte che l’uomo non si può separare da Dio, come la politica non può separarsi dalla morale. Questo è il Santo protettore del Popolo della Famiglia.

 

Gianfranco Amato