Roe v. Wade – La vera storia dell’aborto

Roe v. Wade – La vera storia dell’aborto

Roe v. Wade. Queste due parole significano davvero qualcosa nel mondo pro-life e pro-choice. Si tratta del nome assegnato al caso giudiziario che ha determinato la legalizzazione dell’aborto negli Stati Uniti. Un precedente storico che ha cambiato la visione dell’aborto anche a livello planetario.

Roe e Wade sono i cognomi delle parti finite davanti alla Corte Suprema americana nel 1973, e precisamente, Jane Rone, ossia la donna che intendeva abortire, e l’avvocato Henry Menasco Wade, ovvero il rappresentante dello Stato del Texas. Prima della storica sentenza emanata dalla Corte Suprema nel caso Roe v. Wade, l’aborto negli U.S.A. era disciplinato da ogni singolo stato attraverso una propria legislazione. In almeno una trentina di Stati era previsto come reato di common law, cioè non poteva essere praticato in nessun caso, mentre in tredici Stati era legale solo in caso di pericolo per la donna, stupro, incesto o malformazioni fetali; in tre Stati era legale solo in caso di stupro e di pericolo per la donna, e solo in quattro Stati poteva essere richiesto dalla donna.

Jane Roe, in realtà, era un nome di fantasia scelto a fini processuali per tutelare la privacy della ricorrente, le cui vere generalità erano Norma McCorvey.

Il caso si concluse con la celebre sentenza emessa il 22 gennaio 1973 dai giudici della Corte Suprema a maggioranza: sette a favore e due contrari.

Pochi sanno, però, che Norma non abortì mai il bambino al centro del caso finito davanti alla Corte Suprema. Si pentì e, dopo aver confessato di essere stata strumentalizzata dalle lobby abortiste (la convinsero a mentire su un falso stupro), finì per riconoscere ciò che aveva fatto come «the biggest mistake of my life», il più grande errore della sua vita. Da quell’errore nasce il suo percorso di conversione al cristianesimo che la porterà ad abbracciare definitivamente la fede cattolica e all’impegno pro-life. Sì, Norma diventerà una delle più combattive e convincenti attiviste in difesa della vita fin dal concepimento e contro la devastante pratica dell’aborto. Promise pubblicamente «to spend the rest of my life undoing the law that bears my name», ossia di spendere il resto della propria vita per eliminare la legge che portava il suo nome. Norma McCorvey ci ha lasciato una splendida biografia intitolata “Vinta dall’amore” (Won by love), pubblicata nel 1997. Temo non ci sia una versione italiana di quel libro. Provo a tradurre, allora, il passo in cui Norma descrive quale fu il momento in cui percepì di aver sbagliato: «Alcuni mesi dopo essermi convertita, mi trovavo seduta negli uffici di Operation Rescue (una delle maggiori associazioni pro-life americane, n.d.t.) quando notai un poster in cui venivano illustrate le varie fasi di sviluppo del feto. La progressione nella crescita era così evidente, gli occhi erano così dolci. Mi si stringeva il cuore solo a guardarli. Fuggii dalla stanza e alla fine mi resi davvero conto di cosa fosse l’aborto. “Norma”, mi dissi “hanno ragione loro”. Ho lavorato per anni con donne incinte, io stessa ho avuto tre gravidanze. Avrei quindi dovuto sapere cos’era un feto e come si sviluppava. Eppure qualcosa in quel poster mi aveva tolto il respiro. Continuavo ad avere davanti agli occhi l’immagine di quel piccolo embrione di dieci settimane e dicevo a me stessa: “Quello è un bambino!”. Sono crollata difronte all’evidenza di questa constatazione. Mi sono trovata di fronte ad una terribile realtà: l’aborto non è il “prodotto del concepimento”. Non si trattava di “cicli mestruali interrotti per la gravidanza”. Era questione di bambini soppressi nell’utero delle proprie madri. Capii che fino ad allora avevo sempre sbagliato. Capii che con quella mia azione giudiziaria io avevo sbagliato. Capii che la mia attività di supporto nelle cliniche abortiste era sbagliata. Capii che non si trattava di primo trimestre, di secondo semestre, di terzo semestre o cose del genere. L’aborto – a qualunque stadio e in qualunque fase – è sempre sbagliato. Tutto fu improvvisamente chiaro. Dolorosamente chiaro».

 

Gianfranco Amato