Ritorno al Reale!

Leggo sul quotidiano britannico “The Indipendent” del 27 marzo scorso che Rachel Dolezal, la donna bianca che da dieci anni pretende di essere riconosciuta come nera, intende battersi per il riconoscimento ufficiale della fluidità razziale.

Oltre ai “transexual” avremo anche i “transracial”.

La Dolezal, che è stata anche presidente del National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) (organizzazione che si batte per i diritti degli afroamericani), ha dichiarato al citato quotidiano che «race is less biological than gender» «il concetto di razza è meno biologico di quello di identità di genere» e che è ora di cominciare ad utilizzare il termine “transrazziale”.

In effetti, quelle farneticazioni appaiono come l’inevitabile conseguenza di un falso postulato. C’è un’apparente logicità nell’errore. Dichiara, infatti, Rachel Dolezal: «Il concetto di identità di genere è ormai unanimemente compreso e accettato; abbiamo fatto dei progressi in tal senso, arrivando a capire che il genere non è binario, e non è neppure legato a fattori biologici, e non vedo quindi cosa ci sia di strano nell’affermare che la razza, in un certo senso, sia meno biologica dell’identità di genere».

Siamo al livello degli studenti dell’Università Södertörn di Stoccolma che, intervistati da Hanna Lindholm per conto della rete televisiva Ankdamm TV, sono arrivati a riconoscere alla stessa intervistatrice non solo il diritto a sentirsi uomo, ma pure quello di ritenersi un giapponese. L’intervista si intitolava Är jag en katt?” (Io sono un gatto?) ed è riuscito a dimostrare la paradossale conseguenza del superamento dei limiti biologici fino all’assurda conclusione di dover riconoscere il diritto di un individuo a “sentirsi” un gatto.

Leggendo le dichiarazioni di Rachel Dolezal sul quotidiano “The Indipendent” mi è venuto in mente un libretto che una donna mi consegnò dopo una mia conferenza a San Severino Marche. Me lo diede perché avevano tentato di introdurlo nella scuola elementare frequentata dal figlio di sei anni.

Si tratta del racconto “Io sono un cavallo” degli autori Bernard Friot, Gek Tessaro, pubblicato in Italia dalla casa editrice “Il Castoro”, uno di quei supporti didattici oggi utilizzati per avvicinare i bimbi al concetto di identità di genere. L’ho letto attentamente e ho scoperto che si trattava della storia di un cammello che si sentiva un cavallo e pretendeva che tutti lo trattassero come tale. Ovviamente il contesto del racconto era assolutamente orientato a riconoscere tale “diritto”. Interessante la morale per i piccoli lettori che si trova nel retro della copertina: «Un cammello decide di diventare un cavallo, una bella signora vuole fare la guardia. Un semaforo diventa blu, e tutte le regole cambiano. Ognuno può essere e diventare quello che vuole perché solo così si può essere felici». Sì, il segreto della felicità è decidere di essere quello che si vuole essere. Un cammello può sentirsi un cavallo. Un uomo può sentirsi una donna. Un bianco può sentirsi un nero. La realtà diventa un optional, e ai bambini si comincia a insegnare che i desideri devono diventare diritti.

Sono andato a rileggermi “Ritorno al Reale” del filosofo-contadino francese Gustave Thibon, che io considero un vero e proprio genio. Pochi conoscono la sua storia.

Nel 1916, dopo aver frequentato la scuola comunale, si vede costretto ad abbandonare gli studi per dedicarsi al lavoro nei campi. Alieno da preoccupazioni religiose, trascorre un’adolescenza agnostica. A diciotto anni è assalito però da una veemente passione per la conoscenza. Con impeto febbrile si getta nello studio delle lingue, impara da solo il latino, il greco e il tedesco. Affronta testi di filosofia e teologia, si cimenta anche nella matematica e la biologia. Si riconverte alla fede cattolica a venticinque anni, quando la Chiesa riusciva ancora ad affascinare le menti intelligenti e a convertire gli intellettuali.

Rileggere “Ritorno al Reale” in questa nostra epoca surreale è quasi un dovere. Oggi l’uomo nel suo prometeico desiderio di autodeterminazione si rifiuta di riconoscere alcun limite. Tanto meno il limite della natura, della realtà, e della biologia, sia che si tratti di sessualità che, ora, di razza.

Il soggettivismo ha relativizzato tutto sottoponendolo al capriccio individuale. Non esistono più limiti. Ascoltiamo su questo le sagge parole di Thibon: «Quel che più ci manca è il senso e il rispetto dei nostri limiti. I nostri limiti fanno corpo con la nostra profondità, la nostra ricchezza e la nostra vita: noi esistiamo, respiriamo per mezzo loro. Quando li spezziamo, crediamo di arricchirci, e non facciamo che perderci. I nostri limiti sono i custodi della nostra forza e della nostra unità. Viviamo all’interno dei nostri limiti come il sangue nell’arteria, e la parete dell’arteria non è una prigione per il sangue, e aprire l’arteria non significa “liberare” il sangue. Una certa forma di emancipazione politica e scientifica dell’umanità assomiglia tuttavia proprio a questo».

Davvero profetico fu quello che, agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, Thibon scrisse nella sua opera “Le voile et le masque” sulla reificazione della natura: «Nous avon acquis la maîtris sur la nature aux dépens du dialogue intérieur avec la nature. Matérialisme qui consiste à transformer la matière, voile transparent de l’invisible, en matériau utilisable à toutes fins pratiques, mais opaque au regarde de l’âme. La nature “chosifiée” obéit à nos ordres e ne nous fait plus de confidences: nous sommes servis par un esclave sourd-muet…». Tradotto: «Abbiamo acquisito il dominio sulla natura a spese del dialogo interiore con la natura. Materialismo che consiste nel trasformare la materia, velo trasparente dell’invisibile, in materiale utilizzabile per ogni fine pratico, ma opaco a riguardo dell’anima. La natura «reificata» obbedisce ai nostri ordini e non ci fa più confidenze: siamo serviti da uno schiavo sordomuto»

(Gustave Thibon, Le voile et le masque, Fayard, Paris 1985, p. 211).

Pensiamo alla procreazione artificiale, all’utero in affitto, alla selezione genetica, al blocco della pubertà, alla modifica dei caratteri sessuali per via chirurgica, alla clonazione, all’ibridazione. E questo tentativo di dominare la natura è pericoloso perché contiene in sé il germe del totalitarismo. Lo aveva evidenziato la filosofa ebrea tedesca Hanna Arendt – secondo me una delle donne più intelligenti del XX secolo – nella sua opera “Le origini del totalitarismo”, quando scrisse: «Il disprezzo puramente ideologico per la realtà del mondo dato contiene anche l’orgogliosa presunzione dell’uomo di poter dominare e modificare questo mondo per scopi puramente umani».

Chissà perché oggi non esistono più pensatori del calibro di Thibon e Arendt. Probabilmente perché la civiltà è talmente involuta da aver smarrito il concetto parmenideo di pensiero, il celebre «τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι», per cui pensare significa riconoscere l’essere, il reale.

O forse perché la dittatura del Pensiero Unico è riuscita nella sua opera di omologazione celebrale delle masse, al punto da aver definitivamente eliminato la capacità di pensare.

Gianfranco Amato