Papa e migranti

Ogni volta che Papa Francesco si esprime sul delicatissimo tema dell’immigrazione, sembra destinato a suscitare un’inevitabile ridda di polemiche e strumentalizzazioni trasversali. A destra, come a sinistra. Non poteva fare eccezione la sua ultima prolusione contenuta del “Messaggio per la Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato 2018”.

Il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa affronta specificamente la questione al punto 298, affermando che i flussi migratori devono essere regolamentati. Anzi, si precisa che tale regolamentazione rappresenta una «condizione essenziale» per garantire la dignità degli immigrati. Accogliere tutti indiscriminatamente per poi costringerli a vivere in condizioni indecenti e disumane, non può considerarsi un atto giusto. Due sono i criteri – secondo il citato punto 298 – che devono sottendere l’azione regolatrice: «equità ed equilibrio». Deve trattarsi, quindi, di un’accoglienza sostenibile sotto il profilo sociale, economico e culturale. Nell’individuazione delle ricette pratiche occorrerà anche tener conto del fatto che, grazie ad una classe politica inetta, inadeguata, cialtrona e ciarlatana, l’Italia non si trovi più tra le cinque potenze industriali a livello mondiale, ma si sia ridotta ad un Paese che scivola sempre più verso la povertà e la deflazione. L’Italia non è l’America del XIX secolo.

In questa cornice si inserisce il citato messaggio di Papa Francesco per la prossima Giornata mondiale del migrante, messaggio nel quale, infatti, sono testualmente citati ampi stralci dei suoi predecessori, in particolare Benedetto XVI e San Giovanni Paolo II. Nulla di nuovo, quindi, se non fosse per un particolare accenno allo “jus soli” ed alla questione della cittadinanza, temi che, com’è noto, rappresentano oggi un nervo scoperto nell’opinione pubblica italiana.

Cos’ha detto in realtà il Papa? Il punto è stato affrontato in due passaggi del messaggio.

Il primo riguarda la situazione dei minori, sulla quale il Pontefice si è così espresso: «La Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo offre una base giuridica universale per la protezione dei minori migranti. Ad essi occorre evitare ogni forma di detenzione in ragione del loro status migratorio, mentre va assicurato l’accesso regolare all’istruzione primaria e secondaria. Parimenti è necessario garantire la permanenza regolare al compimento della maggiore età e la possibilità di continuare gli studi. Per i minori non accompagnati o separati dalla loro famiglia è importante prevedere programmi di custodia temporanea o affidamento. Nel rispetto del diritto universale ad una nazionalità, questa va riconosciuta e opportunamente certificata a tutti i bambini e le bambine al momento della nascita. La apolidia in cui talvolta vengono a trovarsi migranti e rifugiati può essere facilmente evitata attraverso una legislazione sulla cittadinanza conforme ai principi fondamentali del diritto internazionale».

Qui, per amor di verità, occorre precisare che il Papa si riferiva alla condizione dei minori apolidi, che è già regolamentata nel nostro ordinamento giuridico. Ricordiamo, in proposito, che la materia è disciplinata dalla Legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante «Nuove norme sulla cittadinanza», pubblicata sulla G.U. n.38 del 15 febbraio 1992, il cui art.1, primo comma, sancisce espressamente quanto segue: «E’ cittadino per nascita: a) il figlio di padre o di madre cittadini; b) chi è nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono». Il secondo comma del medesimo articolo prevede che venga «considerato cittadino per nascita il figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, se non venga provato il possesso di altra cittadinanza».

Sulla questione dei bimbi apolidi, il Santo Padre, dunque, non ha detto nulla di nuovo rispetto a quanto già è previsto non solo dal diritto internazionale, ma anche da quello italiano.

Il secondo accenno alla cittadinanza nel messaggio del Papa appare, invece, un po’ più problematico.

Francesco lo inserisce in un ragionamento sull’integrazione, del tutto ineccepibile: «L’integrazione non è un’assimilazione, che induce a sopprimere o a dimenticare la propria identità culturale. Il contatto con l’altro porta piuttosto a scoprirne il “segreto”, ad aprirsi a lui per accoglierne gli aspetti validi e contribuire così ad una maggior conoscenza reciproca. È un processo prolungato che mira a formare società e culture, rendendole sempre più riflesso dei multiformi doni di Dio agli uomini». E fin qui il discorso appare più che condivisibile, visto che, peraltro, si tratta della citazione integrale di un passo del precedente messaggio redatto nel 2005 da San Giovanni Paolo II, in occasione della Giornata mondiale del migrante e del rifugiato di quell’anno. Poi, però, Papa Francesco aggiunge: «Tale processo può essere accelerato attraverso l’offerta di cittadinanza slegata da requisiti economici e linguistici e di percorsi di regolarizzazione straordinaria per migranti che possano vantare una lunga permanenza nel paese».

Questo punto, in realtà, può dare adito a qualche legittima perplessità. E’ difficile, infatti, immaginare di concedere la cittadinanza a soggetti non autonomi dal punto di vista economico, ma soprattutto che non parlano la lingua del Paese di cui dovrebbero essere cittadini. La lingua è un imprescindibile mezzo di comunicazione all’interno di una comunità, e costituisce la “conditio sine qua non” per un’autentica integrazione. Senza questo requisito essenziale per la cittadinanza, non è possibile realizzare quella che lo stesso Papa definisce nel suo messaggio «la cultura dell’incontro» capace di moltiplicare «le opportunità di scambio interculturale», utili per «le buone pratiche di integrazione».

La parola e la comprensione reciproca è il mezzo con cui si può realizzare l’incontro. Processi “accelerati” per concedere la cittadinanza che prescindano da aspetti come questo, possono apparire non solo inefficaci dal punto di vista dell’integrazione, ma persino pericolosi. L’isolamento e l’incomunicabilità col mondo rappresentano il brodo di cultura di radicalismi ideologici che rifiutano il dialogo.

Non è un caso, peraltro, che tutte le legislazioni prevedano tra i requisiti richiesti per ottenere la cittadinanza anche la conoscenza della lingua ufficiale del Paese che rilascia tale concessione.

Prendiamo il caso della Francia, una delle nazioni meno rigide nel concedere la cittadinanza, dove, per esempio, lo “jus soli” vige fin dal lontano 1515. Ebbene, il Codice civile francese per il rilascio della nazionalità allo straniero non si accontenta di un periodo minimo di residenza pari a cinque anni (riducibili a due), ma pretende altre fondamentali e necessarie condizioni, tra cui «la conoscenza della lingua, della storia, della cultura e della società francese», oltre all’«adesione ai principi e ai valori essenziali della Repubblica». Recita, infatti, l’art. 21-24 del Codice civile francese: «Nul ne peut être naturalisé s’il ne justifie de son assimilation à la communauté française, notamment par une connaissance suffisante, selon sa condition, de la langue, de l’histoire, de la culture et de la société françaises, dont le niveau et les modalités d’évaluation sont fixés par décret en Conseil d’Etat, et des droits et devoirs conférés par la nationalité française ainsi que par l’adhésion aux principes et aux valeurs essentiels de la République».

Papa Francesco ha citato il passo del messaggio di Giovanni Paolo II del 2005, omettendo, però, la frase finale. Questo il testo integrale del Papa Santo: «L’integrazione non è un’assimilazione, che induce a sopprimere o a dimenticare la propria identità culturale. Il contatto con l’altro porta piuttosto a scoprirne il “segreto”, ad aprirsi a lui per accoglierne gli aspetti validi e contribuire così ad una maggior conoscenza di ciascuno. E’ un processo prolungato che mira a formare società e culture, rendendole sempre più riflesso dei multiformi doni di Dio agli uomini. Il migrante, in tale processo, è impegnato a compiere i passi necessari all’inclusione sociale, quali l’apprendimento della lingua nazionale e il proprio adeguamento alle leggi e alle esigenze del lavoro, così da evitare il crearsi di una differenziazione esasperata». Proprio quest’ultima frase, ovvero quella relativa ai «passi necessari all’inclusione sociale», è stata sostituita da Papa Francesco con l’affermazione citata all’inizio, ovvero: «Tale processo può essere accelerato attraverso l’offerta di cittadinanza slegata da requisiti economici e linguistici e di percorsi di regolarizzazione straordinaria per migranti che possano vantare una lunga permanenza nel paese».

Certamente il Papa avrà avuto i suoi buoni motivi per modificare la citazione del suo predecessore – e noi non siamo nessuno per dare consigli al Pontefice – ma è sicuro che se Francesco avesse riportato integralmente il passo di San Giovanni Paolo II, tante inutili polemiche si sarebbero potute risparmiare.

Gianfranco Amato