Non legalizziamo la morte!

Per chiudere qualunque discussione circa l’inopportunità di introdurre per legge il cosiddetto “testamento biologico” basterebbe il caso recentemente accaduto ad un’anziana signora olandese che ha avuto la malaugurata idea di lasciare per iscritto l’autorizzazione ad essere “uccisa dolcemente”, quando in realtà l’ipotesi di morire si profilava lontano all’orizzonte.

Era sana, perfettamente capace d’intendere e di volere, e totalmente ignara di cosa significasse essere a un passo dall’al di là. Col passare del tempo la donna, purtroppo, si ammala e viene colta da demenza senile. Scatta la clausola testamentaria e quindi per lei non c’è scampo: deve essere soppressa.

 

Ci pensa il medico – una donna – che per ben tre volte tenta di infilarle nella vena l’iniezione letale di pentobarbital. L’anziana, infatti, messa difronte alla prospettiva della morte, rifiuta categoricamente l’eutanasia. Troppo tardi. Alla fine l’ago raggiunge la vena, e il veleno comincia a fare il suo effetto mentre la donna continua ad urlare «Non voglio morire! Non voglio morire!». Il medico ha giustificato il suo operato affermando di aver agito nel “best interest” del paziente che, affetto da demenza senile, non era in condizione di intendere e volere.

Ma come si fa a ritenere ragionevole il fatto che una persona perfettamente sana possa anticipare, magari di decenni, una scelta drammatica come quella di farsi sopprimere, senza attendere di trovarsi a tu per tu con «Sora Morte Corporale».

Ma è proprio l’idea della cosiddetta “dolce morte” ad apparire aberrante.

Oggi sembra prevalere nel panorama culturale della società “moderna” un filone di pensiero che potremmo definire radical-libertario, secondo cui ogni individuo è un’isola, un’entità a sé stante, autodeterminante, completamente avulsa dal contesto comunitario in cui vive. Il filosofo americano Robert Nozik aveva ben individuato l’essenza di questa teoria, sostenendo che ogni individuo si trova dentro una sfera morale che nessuno può invadere, tanto meno lo Stato. Secondo Nozik di fronte ad un dilemma morale la scelta che compie un individuo è già etica, qualunque essa sia. Per questo il diritto dovrebbe disinteressarsi dei problemi bioetici, proprio perché l’uomo è un essere dotato di una capacità di autodeterminazione, e quando perde questa capacità, ecco che la sua esistenza non è più «degna di essere vissuta», traduzione del termine «lebensunwertes Leben», coniato dai giuristi tedeschi del Terzo Reich.

Esiste, invece, un filone di pensiero che potremmo definire del “primato del singolo”, ovvero dell’unicità e dell’irripetibilità di ogni singolo essere umano, mutuando questa espressione dal filosofo danese Søren Kierkegaard. Secondo questo profondo pensatore, infatti, nella specie animale vale il principio secondo cui il singolo è inferiore al gruppo (l’animale può essere sfruttato, venduto, macellato), mentre nella specie umana vige il principio secondo cui è il singolo a prevalere sul genere, perché “capax Dei”, immagine e “impronta” di Dio. L’uomo, nella sua inseparabile unità di anima e corpo, è infatti dotato di un quid divino che lo rende unico, originale, irripetibile e naturalmente inserito in una dimensione comunitaria. In questo senso Aristotele parlava dell’uomo come di un essere sociale (ὁ ἄνθρωπος φύσει πολιτικὸν ζῷον) per sua stessa natura (φύσει), per cui l’esistenza o la morte di ciascuno di noi non può essere indifferente alla comunità.

Il confronto fra queste due visioni antropologiche costituisce la grande sfida oggi in atto nella società moderna. Una sfida che, sempre più, tende inesorabilmente e drammaticamente ad essere trasferita sul piano giuridico. Ecco perché il Popolo della Famiglia nel suo programma politico intende affermare la visione antropologica del “primato del singolo” e respingere l’idea che possono esistere «vite non degne di essere vissute». Che la battaglia si svolga sul piano normativo, significa che essa è destinata ad essere combattuta in parlamento.

Per questo la proposta politica del Popolo della Famiglia diventa un’opzione ineludibile.

Gianfranco Amato