La data delle elezioni e la tratta delle vacche

La data delle elezioni e la tratta delle vacche

 

La data delle prossime elezioni è divenuto un tema cruciale e rovente nell’attuale dibattito politico. 2018? Primavera 2017? Giugno 2017? Ottobre 2017? Le ipotesi sono diverse ma la discussione ruota tutta attorno a un solo punto, tanto cruciale quanto deprimente: il vile denaro.

Vediamo di cosa si tratta. Ai sensi del regolamento approvato nel 2012 dal governo Monti – quello del “rigore” –, i parlamentari che sono alla prima legislatura hanno diritto all’assegno di pensione solo se raggiungono il limite dei quattro anni, sei mesi e un giorno. E quella data per l’attuale legislatura scade proprio il 15 settembre 2017. Ergo, prima di allora è assai difficile pensare alle elezioni, ovvero pensare che molti parlamentari rinuncino alla possibilità del vitalizio. Se, infatti, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dovesse sciogliere le Camere prima della fatidica data del 15 settembre, ben seicentootto tra onorevoli e senatori si vedrebbero sfilare sotto mano il biglietto vincente di questa sorta di lotteria che assomiglia molto al gioco a premi “Win for life”. Tra di essi ci sono 209 esponenti del Pd e i 154 eletti del movimento 5 stelle.

E’ la carica dei seicento che rischia di determinare la data delle elezioni politiche. Non si tratta però dei cavalleggeri di Sua Maestà Britannica eroicamente immolatisi a Balaclava. Qui la ragione della carica è assai più prosaica. Comunque, il Governo Gentiloni può contare sul voto di fiducia inossidabile e non disinteressato di almeno seicentootto parlamentari.

La situazione, però, non è così semplice. Il partito dei parlamentari che vogliono elezioni a breve non demorde e passa al contrattacco. La mossa è quella di proporre una modifica delle norme sui vitalizi per convincere i peones e i parlamentari che sono alla loro prima esperienza a chiudere anticipatamente la legislatura in cambio di una buonuscita da 50.000 euro. In pratica si tratterebbe di abrogare qualsiasi beneficio pensionistico in favore di deputati e senatori a partire dalla prossima legislatura, in cambio della restituzione dei contributi versati fino al 2017, che ammontano, appunto, a cinquantamila euro. Questo potrebbe indurre gli onorevoli parlamentari che intendono aspettare il 15 settembre e maturare il diritto al vitalizio, ad optare per l’incasso immediato dell’assegno di cinquantamila euro. Secondo l’adagio popolare per cui è «meglio un uovo oggi che una gallina domani».

La febbre dell’oro in parlamento sta superando il limite preoccupante dei quaranta gradi. Siamo a rischio meningite. Ma come si è ridotta la politica nel nostro sciagurato Paese! Tempo, energie, risorse, intelligenze impiegate per questo che oggi rappresenta un tema fondamentale nel dibattito pubblico, e che si riduce tutto ad una venale questione di quattrini. Da tempo, del resto, il denaro sembra essere diventato l’unico criterio che riesca ad ispirare l’azione di molti politici, finalizzata quasi esclusivamente all’accaparramento di posti, incarichi, cariche e poltrone che possano generare sempre più emolumenti, compensi, indennità, gettoni, rimborsi, e prebende d’ogni tipo. Davvero una febbre dell’oro. Lo diceva già duemila anni fa il poeta latino Virgilio nella sua Eneide, quando parlava della «auri sacra fames», l’esecranda bramosia di denaro (En. 3. 56-57).

Ma i parlamentari che antepongono la cupidigia personale al bene comune hanno deciso di servire il loro padrone: Mammona. L’idolo per antonomasia, «l’idolo di metallo fuso» (Es. 34, 17), come ricordava Padre Rainero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, in una sua memorabile omelia tenuta a San Pietro il venerdì santo del 18 aprile 2014.

Mammona è l’Anti-dio perché crea un universo spirituale alternativo in cui si attua una sinistra inversione di tutti i valori, compreso quello del bene comune, e in cui i soldi diventano l’unico «dio visibile», come scriveva Shakespeare nel Timone d’Atene, e la «radix omnium malorum», la radice di tutti i mali, come scriveva San Paolo nella sua prima lettera a Timoteo (Tim 6, 10). A pensarci bene, ha ragione Padre Cantalamessa: dietro ogni male della nostra società c’è il denaro, o almeno c’è anche il denaro, proprio come il Moloch biblico, a cui venivano immolati giovani e fanciulle, o il dio Azteco, cui bisognava offrire quotidianamente un certo numero di cuori umani. E i nostri politicanti non fanno eccezione quando si tratta di scegliere tra l’interesse pubblico e quello personale. Corruzione, avidità, cupidigia, a volte, arrivano a sostituire il retto discernimento del bene comune.

«Dov’è il tuo cuore, là sarà anche il tuo tesoro», è il monito che lancia Gesù ai discepoli. E’ vero. Se l’uomo identifica il suo tesoro con un forziere, il suo cuore allora resterà soffocato dal peso delle tintinnanti monete d’oro. E questa è una tentazione che può colpire anche chi decide coraggiosamente di impegnarsi in politica fino ad arrivare a compiere il sacrificio di rappresentare il popolo nelle istituzioni. Sì perché se rettamente svolto, quel compito non può che venir visto come impegno duro e fatica.

Lo scranno parlamentare deve essere la meta di chi è disposto a sacrificarsi per un servizio, e non il miraggio di un biglietto vincente della lotteria.

 

Gianfranco Amato