Indottrinamento: Cerimonia gender all’asilo

Questa volta è stato troppo anche per i genitori più “aperti”, moderni, progressisti ed emancipati.

No, la “transition cerimony” non è proprio andata giù, e già ci sono genitori sul piede di guerra pronti ad intraprendere azioni legali contro la scuola.

Vediamo cosa è accaduto in dettaglio.

A Rocklin, in California, nella locale scuola materna, la Rocklin Academy Gateway, un’insegnante ha deciso di impartire ai bimbi di cinque anni lezioni di transgenderismo, perché un loro compagnuccio sta vivendo la fase di transizione da maschio a femmina. Così la zelante maestra decide di utilizzare i famigerati (e secondo qualcuno inesistenti) libretti gender.

Due, in particolare: “I am Jazz” e “The Red Crayon”.

Sono supporti didattici il cui scopo dichiarato è quello di «spiegare il transgenderismo a bambini da quattro a otto anni». Per comprendere di cosa si tratti è sufficiente leggere l’incipit del primo di questi libretti: «From the time she was two years old, Jazz knew that she had a girl’s brain in a boy’s body», ossia «fin da quando aveva due anni, Jazz era consapevole di avere un cervello da bambina in un corpo di bambino».

La solerte insegnante, però, non si è limitata ad indottrinare i poveri piccoli della Rocklin Academy Gateway con i raccontini gender, la cui pericolosità è stata denunciata persino da Papa Francesco.

No, la maestra ha voluto andare oltre.

Affinché, infatti, fosse ancora più chiaro e meno astratto ai bimbi il concetto di gender, è ricorsa all’impatto visivo confidando sugli effetti mnemonici che esso notoriamente produce. E così, ha deciso di far assistere i piccoli alunni alla «cerimony transition», la cerimonia di transizione. Ha preso il bambino “genderfluid” vestito da maschietto e lo ha portato con sé in bagno. Lì lo ha acconciato da femminuccia e lo ha riportato in classe, presentandolo ai compagni come una bambina, con un nome da bambina che da quel momento si sarebbe dovuto usare rivolgendosi a lei.

Il tutto, ovviamente, senza che i genitori fossero minimamente informati.

L’insegnante non aveva considerato, però, l’effetto scioccante della “cerimonia” sui bambini, i quali, infatti, sono rimasti «really deeply emotionally bothered and traumatized» (davvero profondamente scossi e traumatizzati), come ha dichiarato Jonathan Keller, presidente del California Family Council.

Scioccati sono rimasti anche i genitori quando alcune delle bambine hanno chiesto loro piangendo: «Mommy, daddy, am I going to turn into a boy?» (Mamma, papà, diventerò anch’io un bambino?). E quando “mommy” e “daddy” hanno scoperto cos’era accaduto a scuola, sono montati su tutte le furie, hanno preso carta e penna ed hanno scritto alla dirigente scolastica.

La direttrice, Jillayne Antoon, ha risposto, una settimana dopo, con una lettera in cui si limitava a precisare che «il supporto didattico utilizzato è adatto all’età dei bambini (“age appropriate”)» e che la politica di non discriminazione utilizzata dall’istituto scolastico è volta a «proteggere tutti gli alunni anche sulla base del genere, dell’identità di genere e dell’espressione di genere». Della “cerimonia di transizione” nessunissimo accenno.

Il superiore gerarchico della direttrice, il District Superintendent Robin Stout, rispondendo ad un’intervista televisiva sul caso, ha dichiarato che doveva considerarsi corretto il fatto di non aver comunicato nulla ai genitori, in quanto «kids can’t opt out of gender identity and expression lessons», ossia non è contemplata la possibilità di esonero per le lezioni di identità ed espressione di genere.

Il Consiglio d’Istituto ha dedicato un’apposita riunione sulla vicenda, invitando gli avvocati dello studio legale Young, Minney & Corr per avvalorare la tesi del Discrict Superintendent. Cosa che i legali hanno puntualmente fatto, spiegando che, in effetti, dal gennaio 2016, la legge prevede la possibilità di esonero solo per la materia di educazione sessuale, e, come ha ribadito il District Superintendent Robin Stout, «le materie di diversità e tolleranza non possono considerarsi educazione sessuale». Hanno pure aggiunto che «la normativa in California espressamente prevede come obbligatoria l’educazione e l’uso di materiale didattico in materia di gender, orientamento sessuale, modelli familiari», e poiché «tale attività esula dagli aspetti legati agli organi genitali e alle loro funzioni, non è previsto alcun obbligo di comunicazione ai genitori né alcuna facoltà di esonero». Inoltre, «gli studenti hanno il diritto di autoidentificarsi sessualmente e di pretendere l’uso del pronome maschile o femminile che ritengono più idoneo non solo nella propria classe ma in tutto l’istituto scolastico».

Gli avvocati dello studio Young, Minney & Corr hanno infine ammonito che «not to comply intentionally with this is considered gender identity harassment», ossia che «sottrarsi intenzionalmente all’obbligo scolastico su quelle specifiche materie integra un atto di molestia basato sull’identità di genere». I genitori sono avvisati: se continuano a lamentarsi rischiano pure una denuncia.

Resta l’amara e preoccupata considerazione di Jonathan Keller, il presidente del California Family Council: «Quello che è accaduto alla Rocklin Academy Gateway è un altro esempio del crescente tentativo in atto nella società occidentale di rompere il rapporto tra genitori e figli e rendere questi ultimi aguzzini e spie del potere statale». Sembra non abbiano insegnato nulla le grandi dittature genocide del XX secolo. E l’art 26, terzo comma, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo – elaborato proprio come reazione a quei regimi totalitari – sembra ormai uno sbiadito ricordo del passato. E’ sempre bene, però, ricitarlo: «I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere d’istruzione da impartire ai propri figli».

Quanto appare oggi drammaticamente vera l’amara considerazione che il filosofo ispano-americano George Santayana ci ha lasciato nella sua opera “Life of reason”:

«Quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo».

Chi non impara e ricorda la lezione ricevuta attraverso le tragiche esperienze della Storia, è inesorabilmente destinato a replicare gli stessi errori, a riprodurre gli stessi fallimenti, a naufragare sugli stessi scogli.

P.S. George Santaya, peraltro, era uno che aveva idee molto chiare sui limiti e i rischi dell’educazione pubblica di stato, tanto che in un suo articolo significativamente intitolato Perché io non sono un marxista, pubblicato nel 1935 sulla rivista “Modern Monthly”, lui arrivò a scrivere che «a child educated only at school is an uneducated child», ossia «un bambino educato soltanto a scuola è un bambino privo di educazione» (“Modern Monthly” vol. IX, n.2, Apr. 1935, p. 77-79).

Senza l’apporto essenziale della famiglia non ci può essere una vera educazione.

 

Gianfranco Amato