I ragazzi di Cristo Rey

Il 25 luglio 1927, esattamente novant’anni fa, il Messico era devastato da una delle più odiose persecuzioni cristiane della storia dell’umanità, che diede vita alla gloriosa epopea della Guerra Cristera.

Una moltitudine mai vista di uomini, donne e adolescenti decisero di offrire la propria vita in difesa della Fede e della Verità, combattendo contro la spietata tirannide di un regime massonico e anticristiano.

Numerosi furono gli adolescenti che ascoltando la chiamata del Signore decisero di arruolarsi tra i cristeros e che andarono ad infoltire, col loro sangue, la schiera dei martiri della Fede. La figura di San José Sanchez del Rio ben rappresenta lo spirito di questi giovani.

Ho scelto la data del 25 luglio 1927 perché proprio in quel giorno uno di quei tanti giovani è asceso alla gloria del martirio, pur essendo rimasta pressoché sconosciuta al mondo la sua storia.

Si tratta di Leopoldo Zepeda Gálvez, un ragazzo di Sahuayo, il paese di San José. Un compaesano del quattordicenne santo cristero.  Leopoldo era un po’ più grandicello di José, aveva diciassette anni – era nato a Sahuayo il 14 novembre 1909 –, era felicemente fidanzato con Amalia e aveva già un piccolo negozietto dove lavorava in proprio. Lui, come racconterà sua sorella Angelina – una religiosa delle Adoratrici del Santissimo Sacramento – ebbe sin da piccolo un carattere molto forte e risoluto nello studio come nel gioco.

Fu sempre riconosciuto come un “capo” dai fratelli, dai cugini e dagli amici. A questa sua dote naturale univa anche quella di essere buono e nobile d’animo come sa esserlo un bambino con un cuore allegro e aperto alla vita. Leopoldo è sempre stato uno innamorato della vita.

In quella torrida estate del 1927 anche lui a Sahuayo, come tutti i giovani del paese, respirava l’aria della Cristiada.  Era il tempo in cui tra i ragazzi circolavano frasi come queste: «¡Nunca ha sido tan fácil ganarse el Cielo!», non è mai stato così facile conquistarsi il Cielo.

La reazione naturale contro l’ingiustizia, il desiderio di difendere la fede dei propri padri, e l’opportunità concreta di dare la vita per un Ideale erano i sentimenti che riempivano i giovani cuori di quei ragazzi.

Fu proprio quell’estate del 1927 che Leopoldo sente di rispondere alla chiamata di Dio e di combattere in difesa della Fede. Esterna la propria intenzione ai genitori dai quali, però, riceve una netta opposizione a causa della sua giovane età. Leopoldo era, infatti, minorenne. Lui, però, non demorde e alla sorella riferisce in segreto: «Tra poco sarò cristero e morirò martire».

Così, un giorno di luglio decide il grande passo: lascia la fidanzata e il negozio per arruolarsi nei cristeros. Non rivelò a nessuno la sua decisione. Quel giorno si assentò raccontando a tutti che sarebbe andato a fare un bagno nella vasca de La Higuera. Ci andò davvero, ma non fece nessun bagno. In quel luogo scrisse una lettera e un bigliettino per sua mamma. Nella lettera lasciò scritto: «Mamma, non mi cercate perché Dio ormai mi ha chiamato e io non posso restare sordo alle parole di Cristo Re. Mi rattrista molto darvi dispiacere, ma non posso più tirarmi indietro. Mi sono confessato, in modo da non aver debiti spirituali. Vi saluta vostro figlio, e se Dio vorrà molto presto ci rivedremo. Leopolo Zepeda Gálvez». Nel bigliettino, invece, lasciò scritte queste poche parole, dimostrando ancora una volta la sua indole di ragazzo buono e coscienzioso: «Mamma, ti lascio anche in eredità tutti i miei beni: tre biciclette (che affittavo a 50 centesimi l’ora), il negozio e i crediti. Condono il debito di tutti coloro che mi devono soldi ma che non possono permettersi di pagare. Da coloro che invece possono farlo, mamma, fatti pagare».

Quello stesso giorno si unì ai gloriosi combattenti dell’Ejército Libertador Cristero. Era il 10 luglio 1927.

Quindici giorni più tardi, a Jiquilpan ci fu uno scontro armato, che durò tre giorni, tra i federali e i cristeros guidati dal generale Ignacio Sánchez Ramírez. Leopoldo fu colpito alle gambe già il primo giorno di combattimento. Alla sera, una pallottola nemica uccise il suo cavallo e lui cadde a terra ormai gravemente ferito. Gli passò accanto un suo parente, Rodolfo Gálvez, e Leopoldo gli gridò: «Aspettami, cugino!» ma proprio in quel momento anche Rodolfo venne raggiunto da un proiettile mortale. Leopoldo giaceva sofferente a terra ormai in fin di vita. In quegli attimi tragici poté ripensare alla sua vita, alla fidanzata e al lavoro sicuro che aveva lasciato, al dispiacere che la sua morte avrebbe causato ai suoi genitori, ma anche al fatto che presto avrebbe incontrato il Volto di quel Cristo Re per cui era valsa la pena morire. Comunque, sentiva che non era quello il modo in cui voleva lasciare questo modo. Avrebbe desiderato solo congedarsi in maniera diversa. Fu proprio in quell’istante che, quasi per miracolo, una donna si azzardò ad uscire fuori di casa per assisterlo nei suoi ultimi istanti di vita. Leopoldo ringraziò il cielo per questo dono della Provvidenza. Chiese alla donna che non appena egli avesse chiuso gli occhi per sempre, tagliasse un brandello della sua camicia e dei suoi pantaloni, e lo inviasse al nonno Amadeo Gálvez, il quale avrebbe avuto l’ingrato compito di comunicare la brutta notizia ai genitori. Chiese, inoltre, alla signora di tranquillizzare i suoi circa il fatto di essere morto in grazia di Dio. Le ultime sue parole che la donna udì furono: «Viva Cristo Rey, nel mio cuore, nella mia casa, nella mia Patria». Poi, chiuse gli occhi. Era il 25 luglio 1927.

Quella stessa notte alcuni, tra cui la signora Mariquita Montero, videro un arco di luce che partiva da Jiquilpan, il luogo dove era morto Leopoldo, e si fermava sopra la casa dei suoi genitori a Sahuayo. Il giorno tra gli abitanti del quartiere girava questo commento: «Algo grande pasó en la casa de don Luis Zepeda», qualcosa di grande è accaduto nella casa di don Luis Zepeda, il padre di Leopoldo.

Grande è anche quello che successe alla sua ex fidanzata, Amalia Sánchez. Quando questa seppe della morte del suo amato, tra le lacrime fece una promessa: «Io mi consacrerò a Cristo, voglio essere martire come Leopoldo e guadagnarmi così il Cielo». Amalia si fece suora davvero ed entrò nel convento delle Madri Adoratrici di Uruapan, di cui divenne superiora, dopo aver trascorso una vita religiosa da tutti riconosciuta come santa.

Questa era la generazione degli adolescenti di Sahuayo in quella torrida estate del 1927.

Ho deciso di raccontare la vicenda sconosciuta di Leopoldo per rendere giustizia a lui e alle migliaia di anonimi ragazzi messicani che hanno immolato le loro giovani vite attraverso atti di ordinario eroismo. I loro nomi sono stati ignorati dalla storiografia ufficiale e restano in gran parte sconosciuti anche dalla Chiesa, ma non sono spariti nel nulla.

Sono scritti a carattere d’oro nel palmo della mano di Dio e lì resteranno per l’eternità.

 

Gianfranco Amato